***Roma, 3 aprile 2016 (editoriale) – Alle mozioni di sfiducia annunciate dalle opposizioni per la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il governo costringendo alle dimissioni il ministro Guidi, Matteo Renzi ha reagito con una certa indifferenza, come per un incidente di “routine”. “Andremo, in Parlamento – ha detto – spero il prima possibile. E ancora una volta il Parlamento potrà mandarci a casa, se vorrà. Ma non credo succederà neanche stavolta”. Sarà anche incoscienza la sua, ma temo proprio che abbia ragione. Dai tempi di Giolitti, il predecessore di un secolo fa che Scalfari oggi paragona al premier, non ricordo che un governo sia stato mandato a casa per uno scandalo di questo tipo, se non dopo una sentenza definitiva della magistratura. E da noi, prima che arrivi quest’ultima, il governo è quasi sempre già morto di vecchiaia o per altri motivi.
“Chi ruba va a casa – ha ribadito ieri il “grinta” di Rignano alla Scuola di formazione PD, dove sa di poter contare sugli applausi – Perché chi ruba non ruba solo qualcosa, ma ci ruba il futuro. Ma chi ruba lo decidono le sentenze; non la piazza”. Ebbene, qualcosa Renzi ha rubato, e con quella probabilmente anche il nostro futuro. Ha rubato la sinistra all’Italia. Un furto con destrezza. Ha capito che nel ventennio berlusconiano la sinistra aveva diluito gran parte della sua identità nell’antiberlusconismo e che la malriuscita fusione fredda di DS e Margherita avrebbe facilitato, con un’ennesima operazione di trasformismo italico, la “rottamazione”. Non tanto dei leader, che con i loro errori avevano già provveduto al proprio declino, ma di quel poco di “ulivo” e di centrosinistra autentico che sopravviveva nel Partito democratico. Voleva essere un “partito nuovo”? Bene, a come rinnovarlo ci avrebbe pensato lui.
La strada era stata aperta, forse anche con la sua collaborazione, con la sconfitta di Bersani nella mancata elezione di Prodi al Quirinale per colpa dei “101”. Ma a favorirlo è stato soprattutto lo statuto verticistico del PD, “ingenuamente” studiato apposta per dar vita a quadri dirigenti cooptati dall’alto e ratificati nel congresso per acclamazione dalle pletoriche assemblee di base. Gli è bastato quindi insistere col troppo generoso Bersani per una deroga “ad personam” alla candidatura automatica del segretario nazionale alla presidenza del consiglio. La sua indubbia abilità comunicativa, la grancassa mediatica a suo favore e una forzatura delle “primarie”, che consentiva la partecipazione al voto di qualunque passante, hanno fatto il resto.
Quanto è avvenuto nei due anni trascorsi ha fatto coerente seguito a quelle premesse. Dal “malservito” per Letta al patto del Nazareno, dagli euro-bonus all’abolizione dell’articolo 18, dalla deforma costituzionale all’incubo non ancora scacciato dell’Italicum. Ovviamente in due anni è stato fatto anche qualcosa di buono, con l’elezione di Mattarella dal quale si vorrebbe peraltro una “moral suasion” più significativa, o nella politica estera, per una diversa iniziativa europea di accoglienza ai migranti e per un atteggiamento prudente sulla Libia. Ma il peggio è che con le riforme il governo Renzi sta ponendo le basi per un’involuzione della democrazia italiana perfino più grave di quella in corso.
Il referendum del 17 aprile sulle trivelle potrebbe dare, con il raggiungimento del quorum e la vittoria dei sì, un primo segnale di cosa intendono gli Italiani per cambiare davvero verso alla politica del loro Paese. Ma l’appuntamento decisivo sarà in ottobre con il referendum sulla riforma costituzionale e successivamente quelli sulla legge elettorale. Soltanto quei risultati diranno se, con lo stravolgimento della Costituzione, quel furto non soltanto della sinistra ma della democrazia parlamentare sarà stato premiato o punito dagli italiani.















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