Mi chiedo quanti sono quelli che apprezzano il sacrificio di questi caduti per la pace. Ieri sera, durante la puntata di “Servizio pubblico”, mi ha colpito, lasciandomi sconcertato, il sarcasmo “dal sen fuggito” di Edward Luttwak, esperto americano di affari internazionali, corteggiatissimo dai talk show. “In Italia – ha detto testualmente – c’è sicuramente una lista lunghissima di posti dove si può andare a cooperare, dove ci sono terribili situazioni sociali e umane, però certi vogliono andare lontano e in zone di guerra queste cose succedono”. Già, succedono. Come le stragi di civili innocenti puntualmente motivate come “incidenti collaterali”. E quelle in mare di chi è costretto a fuggire da quelle medesime guerre, combattute con armi fabbricate e vendute da noi popoli civili nella piena consapevolezza dell’uso incivile che ne verrà fatto. Perché, come titolava un vecchio film con Alberto Sordi, “finché c’è guerra c’è speranza”. Quanto a Luttwak, gli si potrebbe dare la stessa risposta che il presidente Mattarella ha dato oggi, in un’intervista, al direttore di Repubblica, Mauro: “La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza”. A giudicare dai modesti risultati del vertice di ieri a Bruxelles, una collaborazione che tarda a venire. (nandocan).
***di Pino Scaccia, 24 aprile 2015 – Non c’erano notizie ormai da tre anni, ma mamma Giusi sentiva, come lo sanno sentire solo le madri, che Giovanni era vivo. Ed era vero perché Lo Porto, volontario siciliano rapito da al Qaeda addirittura nel 2012, era vivo e prigioniero addirittura nel territorio dov’era stato catturato, al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan. Lo era almeno fino a gennaio, tre mesi fa, quando un drone americano ha ucciso lui, un altro ostaggio e un leader dei terroristi. L’ennesimo errore, di cui Obama si è assunto tutta la responsabilità, che pesa ancora fortemente sulla credibilità dell’intelligence Usa.
“Non sapevamo che ci fossero anche i prigionieri” ha detto il presidente scusandosi, non lo sapeva infatti la Cia che ha deciso di colpire il compound. Così, insieme al portavoce talebano Ahmed Farouk, sono stati uccisi anche l’economista Warren Weinstein e Giovanni Lo Porto, neanche quarant’anni, di Brancaccio, uno dei quartieri più a rischio di Palermo, un uomo di pace che era andato in Pakistan con una ong tedesca dopo il terremoto e l’alluvione, così come in passato era andato ad Haiti e in Africa, sempre a portare aiuto dopo disastri ambientali, dunque un cooperante estraneo a tutte le sporcizie delle guerre.
Il dolore è grande e alla famiglia e agli amici di quest’italiano coraggioso, che tanto si sono battuti in questi anni per non lasciarlo solo, poco importa della solidarietà. Il mondo politico nazionale, compatto nella vicinanza, chiede soprattutto come sia stato possibile conoscere la notizia con così tanto ritardo. In realtà le spiegazioni tecniche ci sono, a cominciare dalla ricerca del Dna per accertare le generalità, ma personalmente mi farei domande piuttosto sull’uso indiscriminato dei droni, questi assassini invisibili tutt’altro che intelligenti a giudicare dai risultati. E’ una domanda, oltretutto, di estrema attualità nel momento in cui si invoca un intervento simile per sconfiggere l’ondata di migranti. E’ un interrogativo pertinente perché in questo momento sono due gli ostaggi nel mondo: il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, prigioniero in Siria dall’estate del 2013, e il medico ortopedico Ignazio Scaravilli, anche lui siciliano, rapito proprio in Libia nel gennaio scorso. Proprio nei giorni in cui la cosiddetta lotta al terrorismo “sacrificava” Giovanni Lo Porto.















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